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lunedì 25 luglio 2016

Janub

Di quel figlio che studiava legge e non si sbrigava.

I secondi figli sono diversi, forse fatti distrattamente, cresciuti distrattamente, che tanto ormai sei esperta. E quello venuto così, con grandi idee, sempre a fantasticare, ma come dargli colpa di questo, lei per prima viveva tra i suoi personaggi, anche quando puntava gli occhi sul soffritto, lì tra le cipolle quelli si scambiavano battute che lei appuntava su foglietti, non si può sapere mai possano servire. Di quel figlio che dopo la laurea – gli anni fuori corso non si contavano – un giorno disse mamma, faremo vini, l’ho sognato stanotte, la collina e il lago mi parlavano, fai il vino, ti aiuteremo noi, tu metti le piante e noi pensiamo al resto. E lei che non gli disse di no, fare vino implica l’ascolto della natura, del movimento delle fronde, delle conversazioni tra gli acini.


Furono viti, furono foglie, furono grappoli, ben ordinati in filari che scendevano verso le acque del lago. E di tanto lei ne gioì, non c’era ancora raccolto ma i colori meritavano plausi. 
Quando raccoglierai? 
Non lo so, dicono che non è tempo, che l’uva non è abbastanza zuccherina, che non tireremmo fuori né un bianco da tavola e di far moscato non se ne parla, e non so che fare, raccogliere sì ma quando?, e se poi piovesse o gli insetti attaccassero le piante? 
Il lago e la collina assenti.

E di queste cose lei se ne preoccupò da farsi venire la febbre, due giorni trascorsi a cambiare pezze bagnate di acqua fredda sulla fronte rovente. Uscì di notte, mentre tutti dormivano e nessuno se ne sarebbe accorto, aprì la porta e fu investita da luce nel suo pallore. 


Di quella notte si racconta che una figura bianca si aggirò tra i filari carezzando i grappoli, baciando gli acini, dispensando parole alle piante, lentamente, per ore e ore. E l’uva fu raccolta, perché quel figlio il giorno dopo disse che era arrivato il momento, il momento giusto per fare di quell’uva un vino superbo. 

Lei non ebbe dubbi, avrebbe contenuto la molteplicità di un meridione mai compreso completamente. 

Lui attese che il mosto fosse maturo e il vino in un bicchiere perché lei assaggiasse.


Di quel secondo figlio ebbe la conferma, era esattamente come lo aveva voluto, sfuggente eppure intenso. Più di un vino, più di un romanzo, quanto quel pensiero chiaro che lui chiamò Janub.



Giorgio D'Amato